Trasporto sanitario solo con volontari e rimborsi spese? Si rischia l’accusa di caporalato


Corte di Cassazione, quarta sezione penale, sentenza n. 24441 del 22 giugno 2021

Il Tribunale di Pavia – Sezione del Riesame aveva gia rigettato l’istanza di riesame e confermato sia il decreto di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca diretta, nei confronti della X, di 6 autoveicoli, degli immobili ove veniva esercitata l’attività illecita e dei saldi attivi dei conti correnti.
Tali misure cautelari reali sono state adottate nell’ambito di un’indagine relativa al reato di cui all’art. 603-bis, comma 1, n. 2, e comma 4, cod.pen. (c.d. “caporalato”) di cui sono stati considerati elementi indiziari il mancato inquadramento come dipendenti di una pluralità di persone che prestavano il loro servizio apparentemente come volontari, ma con tutti gli indici del rapporto di lavoro subordinato (soggezione al potere direttivo del datore di lavoro; inserimento nell’organizzazione del datore di lavoro; previsione di compenso fisso e di un orario di lavoro).
La società, attiva da diversi anni nel settore dei trasporti sanitari e con una flotta importante di mezzi, era finita nel mirino della procura di Pavia lo scorso anno, per il presunto sfruttamento di 54 lavoratori che, in realtà, secondo le indagini della Guardia di finanza, sarebbero stati dipendenti a tutti gli effetti. Solo che, invece di essere inquadrati come tali, figuravano come volontari. Niente versamento di contributi o altre tutele a quanto pare: a loro veniva corrisposto soltanto un rimborso spese mensile, peraltro – specificano gli investigatori – non documentate.

La società ha presentato ricorso in Cassazione, lamentando l’erronea applicazione dell’art. 603-bis cod.pen., diretto a tutelare non chiunque lavori senza il rispetto delle garanzie legali, ma solo coloro che si trovano in una situazione esistenziale di particolare vulnerabilità che non consente altra effettiva ed accettabile scelta di vita, se non quella di subire l’abuso (situazione che non può essere identificata, ad avviso del ricorrente, nella mera difficoltà economica o nella semplice assenza di alternativa lavorativa)


La Suprema Corte ha invece confermato i provvedimenti impugnati, precisando che lo stato di bisogno va identificato non con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose (v., tra le tante, Sez. 2, n. 10795 del 16/12/2015 ud.- dep. 15/03/2016, Rv. 266162 – 01). Risulta, quindi, del tutto corretta l’opzione interpretativa seguita nel provvedimento impugnato, che ha ravvisato nella condizione delle vittime (non più giovani e/o non particolarmente specializzate e, quindi, prive della possibilità di reperire facilmente un’occupazione lavorativa) una condizione di difficoltà economica capace di incidere sulla loro libertà di autodeterminazione a contrarre.

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