Il nuovo “codice degli appalti”, nella stesura preliminarmente approvata dal Governo, prevede l’abrogazione dell’elenco degli organismi “in house”, cioè quegli enti a cui le pubbliche amministrazioni possono effettuare degli affidamenti diretti, poichè sono equiparabili a uffici interni.
Diversi soggetti, giuristi, l’ANAC, giornalisti, si sono schierati contro l’abrogazione di tale elenco. Quindi vediamo, a distanza di vari anni, se tale elenco è stato utile ed è stato utilizzato.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 7087 del 10 agosto 2022, così ricostruisce l’impianto normativo.
“L’art. 192, comma 1 del d. lgs. n. 50/2016 prevede – anche al fine di garantire “adeguati livelli di pubblicità e di trasparenza nei contratti pubblici” – l’istituzione, presso l’ANAC, di un “elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house”.
È, all’uopo, previsto che l’iscrizione nell’elenco avvenga “a domanda”, previa accertamento – secondo “modalità” e con “criteri” rimessi ad “atto” regolatorio dell’Autorità (in concreto, la delibera n. 235 del 15 febbraio 2017, approvativa delle relative “linee guida” – dalla sussistenza dei “requisiti” di cui all’art. 5 del Codice.
Importa evidenziare che, nell’originario intendimento dei codificatori, all’iscrizione nell’elenco de quo erano stati attribuiti effetti costitutivi (cioè a dire condizionanti della stessa possibilità di procedere ad affidamento diretto): sennonché, in recepimento dei rilievi critici formulati dal Consiglio di Stato in sede consultiva – intesi ad evidenziare che una tale previsione avrebbe ecceduto i principi contenuti nella legge delega, che riconosceva all’iscrizione mera funzione dichiarativa – l’attuale formulazione della norma più non subordina l’affidamento in house al previo perfezionamento della procedura di iscrizione, ma pretende solo la presentazione della relativa domanda, la quale, di per sé, “consente alle amministrazioni aggiudicatrici e agli enti aggiudicatori, sotto la propria responsabilità, di effettuare affidamenti diretti all’ente strumentale”.
L’evidenziata natura “dichiarativa” vale, allora, ad escluderne la valenza provvedimentale (posto che l’effetto abilitativo è correlato recta via alla sussistenza dei requisiti di legge, sia pure con la mediazione dell’obbligo, di natura meramente strumentale, di formalizzazione della “domanda” di iscrizione).”
Quindi, è importante sottolinearlo, “la norma più non subordina l’affidamento in house al previo perfezionamento della procedura di iscrizione”
Inoltre, avendo solamente effetto dichiarativo, l’affidamento in house ad un soggetto non iscritto nell’elenco ANAC, non è dotato di autonoma sanzione, ma può, tuttalpiù, essere rilevato come vizio da un soggetto terzo che si assuma leso dall’affidamento diretto, peraltro senza garanzia che tale vizio possa condurre all’annullamento dell’affidamento diretto.
Inoltre, molte amministrazioni non hanno adempiuto correttamente a quanto previsto dalla norma. Ma quanti sono gli affidamenti diretti a soggetti non iscritti negli elenchi? Facendo una rapida ricerca, secondo i dati degli aggiudicatari incrociati con l’elenco degli organismi in house, entrambi dati messi a disposizione da ANAC, gli affidamenti diretti in violazione della norma solo nel 2020 sono stati ben 57, taluni anche per notevoli importi.
Ciò avrebbe dovuto condurre ad un’ondata di sanzioni da parte di ANAC, di cui, però, non si è avuto notizia, appunto perchè tale violazione non è fornita di sanzione amministrativa.
Quindi la tenuta di tale registro ha imposto alle amministrazioni pubbliche un obbligo la cui violazione non è sanzionata, e che è stato diverse volte violato senza nessuna conseguenza.
Prevedere una sanzione per l’affidamento in house ad organismo non iscritto nell’elenco, o per la mancata iscrizione di un’organismo in house, potrebbe essere valutato come incostituzionale.
Infatti la norma in esame ha superato il vaglio di costituzionalità, solo perchè l’iscrizione non ha efficacia costitutiva, infatti “il medesimo comma 2 dell’art. 192 del Codice è stato ritenuto compatibile sul piano costituzionale, non determinando né un eccesso di delega, posto che la norma delegante – l’art. 1, comma 1, lettera a), della L. 28 gennaio 2016, n. 11 – “è espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali”, né la violazione del divieto di gold plating, la cui “ratio […] è quella di impedire l’introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini, mentre è evidente che la norma censurata si rivolge all’amministrazione e segue una direttrice proconcorrenziale, in quanto è volta ad allargare il ricorso al mercato” (sentenza della Corte Costituzionale n. 100 del 27 maggio 2020).
Peraltro anche l’iscrizione nel registro non reca con sè alcuna semplificazione, poichè l’iscrizione nell’elenco, anche quando si sia perfezionata, è condizione necessaria (pur sprovvista di specifica sanzione), ma non (di per sé) sufficiente, infatti l’art. 192, comma 2 del Codice impone al committente di motivare, ai fini degli affidamenti diretti al soggetto su cui viene esercitato il controllo analogo, anche in ordine alla “congruità economica dell’offerta dei soggetti in house” e alle “ragioni del mancato ricorso al mercato”.
Quindi, in sintesi, in effetti tale elenco, con tutta evidenza, ad oggi non ha apportato nessuna semplificazione, nè ha rafforzato la “compliance” delle pubbliche amministrazioni.